5. Caffè oltre il muro

Caffè oltre il muro

Caffè difficile da mandare giù questa mattina. Inizia tutto con un parcheggio impossibile accanto a mura che scorrono per pochi infiniti metri nel centro della città, così centro che splende il sole e non ti accorgi della tempesta in corso, come nell’occhio del ciclone, perché sei già proiettato nella tua vita poco più in là, sui navigli e sei in ritardo, costantemente in ritardo, mentre dentro il muro la vita scorre lenta.

Sono stata accanto a quel muro, sono stata davanti a quel portone chiuso. Dentro no, mai stata prima. Ero dall’altra parte delle barricate, dove sono ancora, non potrei altrimenti. Ero insieme ai famigliari delle vittime a protestare per una giustizia … per La Giustizia. Non ci sono aggettivi che possano rendere più specifica la Giustizia che deve, per natura, essere unica e inappellabile.

Ho ascoltato madri sopravvissute a figlie trucidate, che crescono nipoti rimasti orfani, con fratelli che vedono ogni giorno l’assassino della sorella a pochi passi da casa loro. Ho parlato con parenti che pagano decine di migliaia di euro per processi inconcludenti. Ho visto lacrime, ma ancora di più ho visto rabbia, una rabbia dignitosa, nulla a che fare con la legge del taglione che troppo spesso viene loro rinfacciata. Una rabbia che nasce da un lutto feroce che spesso squarcia la vita di famiglie ben lontane dal mondo della criminalità. Non posso, nemmeno impegnando tutta me stessa, non essere da quella parte del muro, ma non posso nemmeno, per coerenza personale e per impegno professionale, rifiutarmi di vedere anche l’altra facciata di quel muro pieno di insulti poi cancellati, che inneggiano a una libertà lontana dal mio concetto di Libertà.

L’impatto è forte anche solo nel primo sguardo che accoglie duro, già pronto a spiegare che non è giorno di visita. Spiego che sono lì per la conferenza stampa e già lo sguardo cambia, almeno per un istante. Chiedi al superiore, che non sa nulla, che chiede al referente, che rimanda al modulo bla bla, tutto bene si può entrare, nel secondo portone che porta al girone d’aria prima del mondo recluso.

Ancora documenti, deposito di oggetti e sguardi. Occhi annoiati dalla burocrazia e, poco più in là, occhi induriti di secondine vissute troppi anni tra le sbarre, in bilico tra l’umanità e la sopravvivenza in un mondo in cui è forse un bene smettere di vedere con occhi di donna.

L’occasione è lieta, un progetto artistico che attinge dal vissuto delle detenute e lo plasma, fino a restituirlo in anima artistica su un palco, anzi, tanti palchi. Le ragazze porteranno in scena “La casa di Bernarda Alba” e hanno talmente lavorato sodo che il Comune e il Circuito di Scena Aperta, le hanno supportate. Saranno a Milano e non solo e, come ogni attrice, porteranno una borsa di paure tra le quinte, anche se le loro saranno diverse: la paura di spazi aperti (“dietro il palco restiamo vicine, perché non siamo abituate a spazi così aperti, unite ci sentiamo al sicuro”), la paura di rientrare in un mondo che sembra portato lontano da quintali di cemento e vita (“parlo poco italiano, ma qui le ragazze mi capiscono).

Parlano del progetto, ma ancora di più, raccontano storie di solitudini e abbandoni, di famiglie distrutte e rimpianti. Parlano della paura di tornare a vivere un una società che spaventa perché pare attingere dal dolore e dalle fragilità per creare un ordine spartano. E’ a questo punto che non ricordo più da che parte del muro mi trovo: le stesse parole allo specchio in realtà che si infrangono nello stesso specchio rotto.

Allora smetto di pensare ai muri, alle sbarre e ai permessi e cerco lo sguardo delle persone. Uomini e donne che hanno una visione malata della legalità (“non ho fatto vittime, sono dentro per spaccio”) e uomini e donne che hanno pagato con il sangue questo fallimento umano e sociale. Sì, fallimento. Errore, sbaglio, delitto, vittime. Parole che non sono state pronunciate dentro quelle mura perché fanno paura. Allora le pronuncio io, e le scrivo, assumendomi la responsabilità di mettere sul banco temi difficili, troppo spesso politicizzati e burocratizzati, mai risolti.

Credo che il vero cambiamento, il vero reinserimento, la vera elaborazione del lutto, passi attraverso una presa di coscienza di ciò che ha portato qualcuno dentro le mura e altri fuori, tutti chiedendo la stessa cosa: giustizia. Solo non avendo paura di guardare in faccia il problema potrò sedermi in platea in modo onesto, guardando chi sta cercando di avere i riflettori puntati, una volta tanto, per qualcosa che ha fatto di buono e costruttivo. Non avrà la mia pietà che la pietà e il buonismo non hanno mai risolto grandi problemi, ma avrà la mia attenzione e la mia onestà nel chiedere e nell’ascoltare. Mentre cercherò di “toccare” Caino, non dimenticherò le lacrime di Abele pensando, che in fondo, due fratelli debbano avere il coraggio di guardarsi in faccia e parlare sperando che due solitudini possano diventare una possibilità per entrambi.

Scusate cari Sviaggiatori, il caffè è molto amaro questa volta, al contrario di quanto diceva Fabrizio, in carcere u caffè nun ‘o sanno fa.

©foto e testo di Laura Defendi

pubblicato il  5 novembre 2013 su Sdiario di Barbara Garlaschelli

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